Era un'estate di fine anni Novanta. Questa volta c'era modo di passare un mesetto a mare senza dover aspettare passaggi sporadici, se non improbabili. E, come sempre in queste occasioni, l'immaginazione cavalcava le onde di scenari californiani. Giornate passate più sulla spiaggia che in casa. Tonnellate di conoscenze interessanti. Ritmo. Musica. Fra le tante cose che potevano passare per la testa ad un adolescente sul fare di una bella estate, la musica ebbe la meglio su tutto, perché forse si trattò di quel luglio o agosto in cui a Marina suonarono i Marlene. L'evento fondante vero e proprio, ancora oggi proficuo, interessante, produttivo, fu però una cassetta presa in prestito da Melo. Registrata da una puntata di Planet Rock che chissà per quale motivo non avevo ascoltato in diretta. La cassetta era una raccolta di cantautorato americano alternativo ultra contemporaneo. Accuratamente documentata dal mio amico, che aveva avuto una meticolosità unica nell'intercettare i momenti giusti in cui le canzoni iniziavano. E quei suoni, quei toni dimessi, un poco giallo diafano un po' ocra, divennero un nuovo credo. Sembrava che le chitarre elettriche potessero prendere una pausa di relax subito dopo la folata faulkneriana di Ride dei Palace Brothers. C'era un autentico programma estetico da assimilare, da spulciare e decostruire, come effettivamente avvenne negli anni a seguire. Oltre a Ride, l'unico spaccato ultra elettrico, e a qualcosa di Cohen in coppia con una voce femminile, scoprì, in quelle settimane di continuo ascolto, il rumorismo sommesso degli Smog, documentato nella cassetta insieme alla distensiva Rock Bottom Raiser; e poi Elliott Smith. Ma anche una rarità registrata da Will Oldham con Jim O'Rourke che poi ci misi qualche annetto per trovare in album. Più che ascolto, un rimuginìo, una ruminazione, una vitaminizzazione, se è concesso inventarsi delle parole nuove per entusiasmi che hanno superato indenni almeno un paio di decenni...
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